Maria Rosaria, Beniamino e Bubu con uccellino
M.: Io non l’ho presa tanto bene. Ci saremmo sposati a Capua il 3 giugno. Avevamo tutto pronto ed eravamo fiduciosi ed ottimisti perché comunque da marzo a giugno c’erano tre mesi. Credevamo che in tre mesi tutto sarebbe finito. La prima doccia fredda l’abbiamo avuta quando ci hanno chiamato i responsabili della villa dove si sarebbe svolto il ricevimento invitandoci a posticipare il matrimonio. Da qui è iniziata la nostra personale Odissea, in cui il matrimonio rimandato sarebbe stato solo una delle tante prove che avremmo dovuto affrontare e nemmeno la più difficile.
B.: Io lavoro in polizia penitenziaria quindi svolgo la maggior parte delle mie mansioni in carcere. Alla Dozza di Bologna sono stati giorni pesantissimi a causa della rivolta dei detenuti che si sono ribellati alle misure di sicurezza introdotte dal governo a causa dell’emergenza COVID-19. Quando la rivolta è scoppiata ho dovuto lavorare per giorni 24 ore su 24 senza mai dormire e senza nemmeno poter avvisare Maria, perché per noi è severamente proibito portare all’interno del carcere i cellulari. I miei colleghi ed io eravamo già in stato di preallarme, dopo che il carcere di Modena era stato letteralmente messo a ferro e fuoco e reso completamente inagibile per i danni causati. Per fortuna, a Bologna, non tutti i reparti hanno aderito alla rivolta. Nonostante questo, per arginare centinaia di carcerati in rivolta e impedire che ci fossero evasioni di massa abbiamo avuto bisogno di molti rinforzi. Sono arrivati agenti da altri istituti, polizia, carabinieri, vigili del fuoco e personale dell’area sanitaria. In tutto saremmo stati almeno 400-500 persone a lavorare a strettissimo contatto proprio nel momento di massima diffusione del coronavirus. In quel momento di grande agitazione ed urgenza, non avevamo né mascherine né altri presidi per impedire il contagio. Il risultato finale della rivolta alla Dozza si può riassumere in danni economici pari a circa 2 milioni di euro, che usciranno dalle nostre tasse, e nell'aver messo in pericolo di contagio moltissime persone.
M.: Per me i giorni di rivolta del carcere sono stati angoscianti: non avevo notizie di Ben da due notti, seguivo la rivolta sui giornali o su internet e sapevo che c’erano stati feriti, agenti di polizia finiti in ospedale. Ad un certo punto non ce l’ho fatta più, e nonostante i divieti imposti durante il lockdown, ho preso la macchina e con la sorella di Ben ed i suoi due bambini piccoli ci siamo presentate davanti al carcere per cercare di capire se lui fosse sano e salvo. Non ci siamo mosse fino a quando, parecchie ore dopo, abbiamo saputo da qualcuno che Ben era stato visto nel piazzale e stava bene.
B.: Quando in carcere abbiamo iniziato ad avere persone positive al coronavirus, per me tornare a casa dal lavoro era fonte di gran preoccupazione: avevo paura di contagiare Maria. Mi sono potuto sottoporre al test sierologico per la prima volta solo a fine aprile, per cui non mi sentivo tranquillo anche se Maria non me lo ha mai fatto pesare.
M.: Io non ho mai avuto paura per me. Mi faceva molta più paura stare lontana da Ben o la diffusione del virus nella nostra regione di origine, la Campania. Purtroppo, il sistema sanitario al sud è in condizioni molto più precarie che al nord, o per lo meno di quello dell’Emilia-Romagna che conosco da vicino essendo la mia seconda casa. Se in Campania ci fosse stata la diffusione di COVID-19 che è avvenuta, per esempio, in Lombardia sarebbe stata una strage! È stato davvero angosciante seguire i bollettini dei contagi. Devo dire la verità, a me ha salvato il lavoro! Da tempo seguo una bambina disabile. Questa bimba è affetta da una forma particolarmente severa di autismo e ha bisogno di aiuti continui. Il mio lavoro, insieme a quello della mia cara collega Annalisa, è stato prima di tutto educare la mamma di questa bambina affinché oltre al ruolo di mamma potesse svolgere anche quello di educatrice. Sento una grande soddisfazione ed orgoglio se penso agli sforzi ed ai risultati che questa mamma e questo papà hanno raggiunto durante il periodo di quarantena. Con il nostro aiuto costante (io non ho mai parlato così tanto tempo al telefono o per videoconferenza) questi genitori e la loro bimba di sei anni sono riusciti ad arrivare ad un livello di comprensione e fiducia reciproca che probabilmente non sarebbe mai stato possibile senza questo lungo periodo di confinamento forzato. Per citare solo una delle sue conquiste, sono arrivati a toglierle il pannolino, cosa impensabile fino a poco tempo fa. Almeno una nota positiva in un mare di difficoltà provocate da questa pandemia!
Adesso ci stiamo riappropriando dei nostri spazi quotidiani, e aspettiamo con fiducia il prossimo anno per realizzare il nostro sogno.