Veronica e Cristian, Rimini

Ci saremmo dovuti sposare il 20 giugno 2020. Ci piaceva questa data, prossima al solstizio d’estate, quando i giorni sono lunghi ed il tempo è bello. Era da circa un anno che pianificavamo il nostro matrimonio.
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Quando a febbraio hanno chiuso gli asili, e poi i primi di marzo Conte ha proclamato il lockdown in tutta Italia, abbiamo intuito che probabilmente non ci saremmo potuti sposare a giugno.
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V.: Ci eravamo dati un tempo massimo: verso fine aprile avremmo dovuto decidere cosa fare riguardo al nostro matrimonio. Poi l’idea di rimanere in balia di eventi e decisioni che non dipendevano da noi non mi piaceva per niente, mi faceva anche un po’ arrabbiare ad essere sinceri. Inoltre, una situazione poco chiara con i fornitori non ci faceva stare tranquilli: c’era chi inizialmente sminuiva la situazione e ci incoraggiava a mantenere la data, altri invece che sembravano più inclini a rimandare l’evento. Non volevamo proprio trovarci nella situazione di dover rinunciare a qualcuno dei professionisti che avevamo scelto e a cui inoltre avevamo già versato caparre anche significative. Così a metà marzo, ho convinto Cristian a prendere una decisione una volta per tutte. Abbiamo chiamato tempestivamente tutti per riorganizzare il matrimonio per il 2021 e nonostante questo, siamo riusciti a trovare una sola data in cui tutti fossero disponibili.
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C.: Per fortuna, alla fine, abbiamo deciso di seguire l’istinto di Veronica! In questo è stata sicuramente più lungimirante di me, che magari avrei continuato a tergiversare fino ad aprile. Mi sono convinto anche perché, lavorando in ospedale come infermiere in cardiologia interventista, ho visto come la situazione andava degenerando rapidamente. Tanto che ad un certo punto c’è stato uno stravolgimento totale della nostra routine di lavoro: si lavorava solo sulle urgenze e parte del nostro personale andava a rinforzo dei reparti COVID-19 o a coprire dove ci fosse bisogno. Ci sono stati giorni caotici, dove ti trovavi a cambiare unità operativa cercando di sopperire al meglio le urgenze che nascevano volta per volta. Ad un certo punto, per esempio, la coordinatrice di un altro reparto mi ha chiamato dicendomi che bisognava allestire un nuovo spazio COVID -19 partendo da una struttura ancora non adeguata, dove era necessario ridistribuire gli spazi per creare il necessario isolamento e le relative zone filtro. La pressione era tanta, anche perché non si trattava di un ricovero ma di 3 o 4 ricoveri alla volta. Nei momenti peggiori si è arrivati ad avere circa 300 persone ricoverate simultaneamente in tutto l’ospedale. Quando la sala di rianimazione si è riempita, si sono iniziate ad usare le sale operatorie fornite di respiratori per poter far fronte alla necessità di intubare più persone. Per noi infermieri era difficile trovarsi a lavorare a stretto contatto con medici di cui non conoscevamo bene le modalità di lavoro, inoltre parte del personale ospedaliero era stato contagiato e non poteva prestare servizio, quindi eravamo sotto stress anche in tal senso.
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V.: Anche io sono infermiera, lavoro in Hospice, una struttura dove si offrono cure palliative per migliorare la qualità di vita del malato terminale. Si tratta di un luogo molto particolare, dato che le persone che vi entrano sanno che difficilmente ne usciranno. Si tratta generalmente di malati di cancro di tutte le età. Noi non abbiamo avuto casi di COVID -19 ed il nostro funzionamento di base non è sostanzialmente cambiato, a parte il dover indossare la mascherina costantemente. La nostra più grande difficoltà è stata gestire l’accesso e le visite dei familiari dei degenti, cosa che in tutte le altre strutture è stata sospesa totalmente. Nonostante le restrizioni, per umanità e data la particolarità di questo reparto, si è deciso di mantenere la possibilità ad un solo familiare di accedere alla struttura per continuare ad accompagnare ed assistere il malato. Questa limitazione, seppure più blanda che in altri luoghi, ha generato grandi frustrazioni e situazioni difficili da gestire, ma non tanto tra le persone ricoverate quanto con le rispettive famiglie. Il bisogno di questi famigliari di vedere i loro cari era più forte del senso di bene comune. Paradossalmente, i malati erano quelli più comprensivi e predisposti alla collaborazione. Probabilmente arrivati a quel punto della vita, si riescono a vedere le cose da una prospettiva diversa. Si impara ad essere meno egoisti. È stata davvero la parte più straziante di tutto il nostro lavoro.
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C.: Nei nostri reparti invece l’aspetto psicologico del paziente si è manifestato in modo diverso. In ospedale per entrare a contatto con gli ammalati noi dovevamo indossare tute protettive che ci coprivano dalla testa ai piedi. Ci sono stati fatti dei corsi per imparare a portare a termine in modo sicuro il processo di vestizione e svestizione, decontaminazione e smaltimento dei nostri indumenti. Inoltre, tutta la procedura richiedeva almeno una decina di minuti ogni volta. Questo ha significato che non potessimo intervenire alle richieste di ogni singolo paziente in modo tempestivo o continuo, cosa che ha purtroppo accentuato la sensazione di solitudine o di abbandono di alcuni pazienti. Il fatto è che venire a contatto con i pazienti per questioni di necessità non primaria non solo ci impegnava in operazioni di preparazione piuttosto complicate, ma rappresentava una delle modalità principali di contagio del personale proprio per la difficoltà implicite nel processo pre e post contatto. Banalmente anche solo rispondere al telefono o prendere l’ascensore era diventato qualcosa da fare con estrema cautela. Nei reparti COVID-19, verso la fine della quarantena, sono stati messi a disposizione dei prototipi di robots che con una sorta di videochiamata mettevano il personale sanitario in comunicazione con i pazienti, arrivando a svolgere anche una vera e propria visita senza che avvenisse alcun contatto fisico. Questo è stato un grande aiuto perché igienizzare un robot è una procedura piuttosto semplice e sicura. Ovviamente questo era possibile solo con pazienti che avessero preso la malattia in una forma meno grave. Diverse ditte avevano anche messo a disposizione tablets e dispositivi per permettere ai pazienti di comunicare con i familiari.
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Dopo aver visto con i nostri occhi tutto quello che è successo in ospedale adesso quando pensiamo alla scelta di aver rimandato all’anno prossimo il nostro matrimonio ci sentiamo sollevati. Tra l’altro, la maggior parte dei nostri invitati, dei nostri amici, lavorano nell’ambito ospedaliero quindi siamo tutti molto coscienti di cosa ha significato e significa questa malattia.
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Per rigenerare un po’ quel senso di attesa legato al matrimonio passato un po’ in secondo piano, abbiamo pensato di farci un regalo. Siamo tutti e due amanti della pittura, così abbiamo commissionato un quadro ad uno degli artisti che più ci piacciono. Gli abbiamo raccontato la nostra storia, il matrimonio rimandato a causa dell’emergenza COVID-19, il fatto che da infermieri abbiamo vissuto questo periodo in prima linea e gli abbiamo lasciato l’incarico di produrre un’immagine che parlasse di tutto ciò. Ci è stato consegnato il quadro solo pochi giorni fa, ma abbiamo deciso che rimarrà sigillato fino al prossimo 5 giugno 2021 quando finalmente diventeremo marito e moglie.